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A Cersaie il dialogo-incontro, moderato da Fulvio Irace, tra il filosofo Maurizio Ferraris e l’architetto Mario Botta

Quanto dell’architettura moderna è destinato a durare nel tempo? E quanto della stesa cultura contemporanea potrà essere trasmesso ai nostri figli e nipoti, in un mondo dominato dalla cultura “immateriale”? Parte da queste domande l’incontro “Lasciar tracce”, andato in scena ieri a Cersaie e che ha visto un “faccia a faccia” tra il filosofo torinese Maurizio Ferraris e l’architetto ticinese Mario Botta. Un confronto inedito, moderato per l’occasione da Fulvio Irace, ordinario di Storia dell’architettura al Politecnico di Milano – tra il creatore (l’architetto) e il decifratore di tracce (il filosofo), impegnati in una comune sfida nell’interpretare questa naturale esigenza umana: lasciar traccia di sé al di là di un’esistenza, per così dire, tra parentesi, sospesa tra secoli, millenni, di naturale e umana non-esistenza.

“Il rapporto tra architettura e filosofia è sempre stato problematico, soprattutto per gli architetti – ha osservato il professor Fulvio Irace introducendo l’incontro – eppure esistono filosofi, da un lato, e architetti, dall’altro, convinti che la maniera tradizionale di fare cultura, di fare architettura, non sia affatto superata. Convinti che noi non solo abbiamo ancora la possibilità di lasciare tracce, ma anche la responsabilità di farlo”.

E dai temi della storia e della memoria agli effettivi comportamenti dell’uomo nei luoghi in cui abita il passo è breve. Testimonianza più o meno indelebile e apprezzabile – in ogni caso, testimonianza per noi rilevante – sono le innumerevoli tracce lasciate sul paesaggio dalle opere di architettura.

“I faraoni – ha osservato Maurizio Ferraris – avevano capito tutto, costruendo un oggetto, a ragione, destinato a durare nei millenni, ma con un accorgimento in più: l’interno delle piramidi è interamente costellato di scritture, sopra i muri, e le varie camere ospitano papiri, peraltro destinati a durare molto di più dei file che si trovano sui nostri computer. L’architettura è il lasciar tracce più definitivo che possa esistere, e non a caso la prima architettura che conosciamo, storicamente, aveva una funzione di monumento funebre, quasi potesse servire, quasi dovesse servire, a regalare all’uomo l’eternità”.

Eppure la traccia non è tale, senza “registrazione”. Così come siamo più legati a una piramide rispetto ad una comune pietra – magari anche più antica – è la registrazione, a cominciare dalla scrittura, che permette alle azioni umane di durare nel tempo, di costituirsi come tracce. Se non esistesse la registrazione, il documento – ha osservato il filosofo, autore del volume “Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce” – non potrebbero esistere concetti anche molto comuni quali matrimoni, profitti, rivoluzioni, vacanze. Tutti oggetti “sociali”, che esistono in quanto trascritti, archiviati, condivisi.

“La registrazione – ha risposto Mario Botta, forte di cinquant’anni di attività professionale che lo hanno portato alla realizzazione di opere ed edifici in cui convivono, senza nostalgie o ripianti, presente e passato, memoria e futuro – è l’essenza dello spirito del nostro tempo. Non a caso, il primo atto di fare architettura consiste nel porre una pietra sulla terra, non una pietra su una pietra. È grazie a questo primo atto che da una condizione di natura si passa a una condizione di cultura. Ecco perché l’architettura ci appartiene, poiché rappresenta il nostro spazio di vita, modellato dai segni che appunto costruiscono questo spazio. L’identità nella società globalizzata di oggi passa sempre di più dall’identificazione con un territorio, un territorio che l’architettura comunica. Significati che vanno ben al di là dell’originario valore funzionale di un edificio, il più delle volte, effimero”.

Insomma, le piramidi – ma anche il Pantheon – non ci interessano per la loro originaria funzione, ma in quanto testimonianza di qualcosa che ci appartiene, di qualcosa in cui riusciamo ad identificarci. È ancora così? Possibile ipotizzare un futuro per la cultura moderna se questa fa riferimento a supporti – dal floppy disc alle videocassette, tanto per citare gli esempi più eclatanti – così deboli? Possibile, per tornare all’architettura, pensare ad edifici destinati a durare nel tempo considerando che nulla di quanto si costruisce oggi ha una vita utile attesa superiore a qualche anno o – nel migliore dei casi – qualche decennio?

“La nostra non è, come si è detto, la società della comunicazione – ha ribadito Ferraris – ma la società della registrazione. E a pensarci bene quel che è stato ripreso, passando dal telefono fisso all’I PAD, dalla televisione al computer, non è altro che l’originario ‘spirito delle piramidi’: lasciare più tracce possibili. L’evoluzione di questi supporti, che tutti conosciamo, segue in realtà la nostra natura, ed è avvenuta non appena si sono resi disponibili supporti dotati di memoria. Fino ad arrivare al rischio di farci cogliere dal ‘mal d’archivio’: poiché tutto è registrato ovunque non ci preoccupiamo più di produrre delle copie, con il risultato che la società più registrata di sempre è quella che rischia più di altre di far perdere, per sempre, le proprie tracce”.

Un problema in apparenza di debolezza dell’hardware – o delle costruzioni moderne – che torna a trasformarsi in una questione culturale. Perché in fondo nella traccia non cerchiamo altro che noi stessi, qualcosa che rispecchi il nostro tempo. E se abbiamo la sensazione che le tracce moderne non siano destinate a durare, è perché – hanno concordato il filosofo torinese e l’architetto ticinese – non abbiamo tempo o voglia di interrogarci su cosa le tracce significano per noi. E non interviene più, come in passato, un sistema di valori e ideologie abbastanza potente per sopperire a questa nostra mancanza.

“L’architettura – ha osservato Botta – è lo specchio fedele di una storia che ci appartiene. Uno specchio anche impietoso, proprio perché fedele, di come siamo. La ricchezza che proviamo quando entriamo in una città europea è data dalla stratificazione storica, procedendo dalla periferia verso il centro. Quello che noi possiamo fare è soltanto aggiungere un altro pezzo di ‘crosta’. La sfida è fare in modo che le persone vi si riconoscano, lo sentano proprio: o ci creeremo gli anticorpi per far guadagnare al locale un valore universale, o verremo davvero risucchiati dall’appiattimento, dal globale, dal non-luogo. Quando interveniamo su un territorio interveniamo su una storia, su una memoria. È una grande responsabilità e di fatto la nostra sfida più importante”.

Una “ragione critica”, dunque, quella proposta da Botta e Ferraris, rispetto alla fragilità dei modelli culturali imposti dalla globalizzazione, in un incontro che ha richiamato a Cersaie un’affollata platea di visitatori, tra cui molti giovani studenti di Architettura. L’obiettivo finale? Fare in modo che la profezia di Andy Warhol – secondo cui sarebbe arrivato un tempo in cui ciascuno sarebbe stato famoso, ma solo per un quarto d’ora su You Tube, Facebook o in qualche altro non luogo – non si avveri mai. Mentre l’architettura resta una delle risposte principali – forse di questi tempi l’unica – all’esigenza umana di lasciare davvero traccia di sé.
















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