Il grande edificio metallico è un frammento straordinario di memoria industriale, oltre che una formidabile “presa” a buon mercato per costruire urbanità e relazioni col quartiere Braida.
Nel territorio del distretto ceramico emiliano non troviamo esempi di quelle “cattedrali” industriali che invece hanno segnato – e talvolta ancora segnano, quando sono diventati oggetto di consapevoli riqualificazioni, come nel bacino della Ruhr o a Torino – il paesaggio urbano delle metropoli fordiste del Novecento. La straordinaria storia imprenditoriale di questo territorio, come dei tanti distretti industriali italiani, si è svolta sotto le coperture di edifici perlopiù contenuti nelle dimensioni, e modesti in termini di qualità architettonica. La prefabbricazione – la sua rapidità, la sua economia – è stata sovente l’unico e banale codice attraverso il quale, dagli anni Sessanta in avanti, si è scritto quel paesaggio che tutt’oggi costituisce lo sfondo della nostra vita quotidiana in questi territori.
Tuttavia, nel basso continuo di questa edilizia minore, qualcosa rompe il ritmo. Qualcosa si fa riconoscere, e aiuta a orientarci (ad esempio quando giungiamo al distretto percorrendo la superstrada Modena-Sassuolo, e qualcosa attraverso il finestrino ci avvisa che siamo arrivati). Non penso solo ai recenti stabilimenti delle “multinazionali tascabili”, con i loro centri di ricerca griffati e i loro magazzini verticali. Penso piuttosto a quei pochi depositi delle argille ancora in piedi, a quei grandi hangar metallici voltati che avevano – talvolta ancora hanno – il ruolo di immagazzinare e far maturare le terre prima della loro trasformazione in lastre di ceramica. Di questa manciata di edifici – straordinari per l’ampia gamma di riusi che consentirebbero – molti sono oggi ammalorati, non bene ubicati rispetto i centri abitati, e le loro coperture di Eternit rendono difficile l’immaginare riconversioni a buon mercato.
Ma tra questi fabbricati ve n’è uno – uno solo, attenzione! – che fa eccezione, tanto per l’ottimo stato di conservazione in cui versa, quanto per l’ubicazione strategica, quanto – elemento non secondario – per l’assenza di amianto nella struttura di copertura. Sul margine nord-ovest del comparto ex Cisa-Cerdisa, tra i viali Adige e Tagliamento, a un passo dalle case di Braida, sta il grande deposito di argilla dell’azienda. Un’imponente volta a botte metallica che non ha nulla da invidiare ai suoi simili che già sono stati oggetto di fortunate esperienze di recupero in Italia e in Europa – si pensi al Carroponte milanese o al Jardin des Fonderies a Nantes. Un manufatto unico, che non può essere demolito nell’indifferenza.
Qui non si tratta soltanto di capire quali tracce della nostra storia industriale è bene portare con noi nel futuro – anche se è cruciale che questo dibattito si avvii, e alla svelta, sperando che le élites abbiano appreso qualcosa dalle voci dell’ultimo Festivalfilosofia sul tema “ereditare”. Si tratta di comprendere che l’oggetto in questione, per la sua fortunata posizione, può essere l’elemento fondamentale per pensare un processo di riqualificazione del grande comparto dismesso tra Fiorano e Sassuolo che non consegni alla “Città-distretto” – nell’area che potrebbe esserne il cuore – un ennesimo frammento di periferia, con un convenzionale contenitore commerciale, qualche anonimo edificio terziario e qualche palazzina.
Che accolga una piazza coperta multifunzionale, integrata al centro commerciale in corso di progettazione, o che si tramuti nel foyer variamente allestibile di un centro di ricerca ed esposizione sui temi dell’innovazione ceramica, il deposito delle argille nell’area Cisa-Cerdisa dev’essere pensato come la fondamentale cerniera per collegare ogni nuova futura funzione del comparto in trasformazione al quartiere Braida. Dev’essere pensato come la testa di ponte per rompere lo stigma e l’isolamento che ancora avvolgono questa parte di città. Deve diventare l’epicentro che porta – da subito e con interventi a basso costo – attività e urbanità nell’area, così incoraggiando operazioni immobiliari di qualità nei comparti adiacenti.
La politica locale, i proprietari del terreno e gli investitori “alla finestra” questa volta ascoltino: non facciano l’irreparabile errore di abbattere quell’edificio così singolare per foggia e collocazione. Potrebbero svegliarsi, tra qualche anno, e amaramente accorgersi di aver scambiato la potenziale pietra fondativa della “Città-distretto” per un rottame senza valore.
Federico Zanfi
(architetto urbanista modenese, membro dell’unità operativa del Politecnico di Milano che è al lavoro sul distretto ceramico nell’ambito del progetto di ricerca nazionale “Re-cycle Italy”)
Didascalia immagine: l’interno del deposito delle argille nell’area ex Cisa-Cerdisa (fotografia di Federico Zanfi, 2014)