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Chi perde le ali può ritrovarle? Il caso degli insetti stecco e le tante strade dell’evoluzione

L’evoluzione è irreversibile? Un carattere complesso di una specie, ad esempio una strutta anatomica come le ali, può ricomparire dopo che è stato perso? Una nota legge della biologia evoluzionistica – la legge di Dollo – sostiene che non sia possibile. Un gruppo di ricerca guidato da studiosi dell’Università di Bologna ha però ora individuato un nuovo caso che mette in dubbio l’universalità di questa teoria.

Lo studio – pubblicato sulla rivista Systematic Biology – si è concentrato sulla presenza delle ali nei fasmidi, un ordine di insetti conosciuti come insetti stecco o insetti foglia. Ricostruendo il percorso evolutivo di oltre 300 specie, il gruppo di ricerca ha messo in luce la possibilità di molti scenari in cui le ali sarebbero state perse e riacquisite più volte.

“L’aspetto innovativo di questo studio sta proprio nell’aver incluso un numero di specie molto elevato, sia prendendo in considerazione i livelli di incertezza delle ricostruzioni evolutive, sia realizzando simulazioni di un gran numero di scenari possibili”, spiega Andrea Luchetti, professore al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna, tra gli autori dello studio. “E in tutti i casi analizzati siamo arrivati alle stesse conclusioni: l’evoluzione delle ali in questi insetti è un processo reversibile e dinamico”.

La legge di Dollo – formulata dal naturalista Luis Dollo e riproposta in seguito anche dal paleontologo Stephen Jay Gould – si basa sul fatto che strutture complesse perse da una specie nel corso dell’evoluzione non possano riemergere in seguito nella loro forma originale. Si tratta di un principio oggi ancora comunemente accettato, nonostante siano stati proposti negli ultimi anni diversi casi in cui sembrerebbe essere stato violato.

Tra questi, uno dei primi e più noti è proprio quello dei fasmidi, una classe di circa 3.300 specie che rispetto alle ali mostra un alto livello di variabilità a tutti i livelli tassonomici: in alcuni casi sono assenti, in altri sono presenti ma con numerose differenze anatomiche.

“La presenza delle ali può offrire agli insetti molti vantaggi, come una maggiore capacità di sfuggire ai predatori e la possibilità di muoversi in aree più ampie”, dice Luchetti. “Ma anche una riduzione parziale o la loro completa scomparsa può rivelarsi fondamentale per l’adattamento all’ambiente: ad esempio per mimetizzarsi meglio o per un utilizzo più efficiente delle risorse energetiche”.

Utilizzando una serie di approcci analitici all’avanguardia e numerosi modelli evolutivi teorici, gli studiosi hanno quindi ricostruito i diversi scenari che hanno portato a questa variabilità rispetto alla presenza delle ali nei fasmidi. Un lavoro di analisi da cui sono emersi in modo sistematico diversi casi in cui le ali sarebbero ricomparse dopo essere state perdute. Non solo: questa “reversibilità” della presenza delle ali appare associata ad un più alto tasso di diversificazione tra specie, forse perché consentirebbe maggiori opportunità di adattamento o in alternativa perché favorirebbe il passaggio tra l’assenza e la presenza di ali.

“Le nostre analisi indicano chiaramente che l’evoluzione di questi tratti morfologici è molto meno lineare di quanto ipotizzato fino ad oggi, ma questo non significa che la legge di Dollo sia da archiviare definitivamente”, aggiunge Luchetti. “I caratteri morfologici sono espressione di gruppi di geni con interazioni complesse, e questi devono essere indagati a fondo per poter dire se si tratta in effetti di caratteri con un’espressione intermittente o se sono invece espressi da set di geni differenti: lo studio del genoma e dell’espressione genica ci potrà dare certamente nuovi dati su cui lavorare”.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Systematic Biology con il titolo “Macroevolutionary Analyses Provide New Evidence of Phasmid Wings Evolution as a Reversible Process”. Per l’Università di Bologna hanno partecipato Giobbe Forni, Jacopo Martelossi, Andrea Luchetti e Barbara Mantovani del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali. Per questa ricerca, i due primi autori – Giobbe Forni e Jacopo Martelossi – hanno ricevuto il Premio UZI (Unione Zoologica Italiana) 2021 Giovani Ricercatori.

















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