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Sclerosi multipla e vaccini anti-Covid: risposte durature nonostante i trattamenti

Le risposte ai vaccini anti-Covid nelle persone con sclerosi multipla sono specifiche e durano nel tempo, anche se è possibile osservare delle differenze a seconda del tipo di trattamento ricevuto. E’ quanto emerge da un lavoro condotto da un team modenese di Unimore, coordinato dal prof. Andrea Cossarizza coadiuvato dalla ricercatrice Sara De Biasi e dal dott. Domenico Lo Tartaro, che descrive, per la prima volta, le principali caratteristiche immunitarie sviluppate in seguito alla vaccinazione anti-SARS-CoV-2 in pazienti con sclerosi multipla (SM) trattati con diversi farmaci immunomodulanti.

Lo studio, al quale hanno partecipato medici e ricercatori di Unimore e dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Modena, tra cui la Dott.ssa Diana Ferraro della Clinica Neurologica, e realizzato grazie ai fondi di un bando speciale della Fondazione italiana sclerosi multipla (FISM), è stato appena pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Communications.

 

La sclerosi multipla e l’influenza dei trattamenti sui vaccini

La sclerosi multipla è una malattia autoimmune di tipo neurodegenerativo che colpisce il sistema nervoso centrale e che è caratterizzata da elevati livelli di infiammazione causati da una potente attivazione del sistema immunitario, in particolare dei linfociti T. Diversi farmaci immunomodulatori con diversi meccanismi di azione sono oggi in grado di diminuire o bloccare l’attivazione del sistema immunitario, intervenendo sui livelli di infiammazione e prevenendo la progressione o le ricadute della malattia. Tuttavia, tali le terapie possono modificare le risposte immunitarie e ridurre l’efficacia dei vaccini, come quello per il SARS-CoV-2.

Alcuni studi condotti in passato hanno mostrato però che è possibile modulare la somministrazione delle terapie per ottimizzare anche la risposta ai vaccini. Ma non solo: altre ricerche hanno infatti provato che i richiami vaccinali consentono di rinvigorire le risposte immunitarie dei pazienti. Mancava però finora una caratterizzazione sul lungo termine delle risposte immunitarie ai vaccini anti-Covid, e su questo si sono concentrati i ricercatori oggi. Lo hanno fatto studiando i linfociti T e B a sei mesi di distanza dalla terza dose. Lo scopo, spiegano, era di capire se fosse possibile identificare anche delle caratteristiche nel sistema immunitario di pazienti in trattamento che li predisponesse a un aumentato rischio di possibili infezioni.

 

Lo studio

Utilizzando metodiche all’avanguardia come la citometria a flusso multiparametrica e la citometria di massa a 45 parametri, i ricercatori hanno analizzato l’aspetto, la funzione e il profilo metabolico dei linfociti T e B specifici per SARS-CoV-2 che si sono sviluppati in seguito alla somministrazione della terza dose del vaccino. Nella coorte di 94 persone con sclerosi multipla recidivante-remittente trattate con diversi farmaci immunomodulanti (tra cui cladribina, dimetilfumarato, fingolimod, interferone, natalizumab, teriflunomide, rituximab o ocrelizumab) i ricercatori hanno osservato che il vaccino induce una efficace risposta immunitaria. “Il nostro studio – ha commentato De Biasi – dimostra che, nonostante l’utilizzo della terapia immunomodulante, i pazienti con sclerosi multipla sviluppano una risposta immunitaria cellulo-mediata funzionale, specifica e duratura nel tempo in seguito a vaccinazione con SARS-CoV-2”.

Tuttavia, i pazienti trattati con fingolimod e natalizumab sviluppano un profilo immunitario diverso da quello di tutti gli altri pazienti, soprattutto da un punto di vista metabolico, pur mantenendo comunque la loro funzione. Per esempio, nel caso del fingolimod, le cellule sviluppano un profilo senescente, come se fossero “invecchiate”, ma nonostante questo rimangono in grado di rispondere agli stimoli provenienti dall’esterno, come la vaccinazione appunto. L’utilizzo di un modello di analisi di predizione in silico, già utilizzato e validato per predire la risposta a terapie biologiche in ambito oncologico, ha infine permesso di osservare che chi sviluppa un particolare profilo delle cellule B e T specifiche per SARS-CoV-2, con linfociti metabolicamente attivi su più fronti, risulta essere più protetto dal COVID-19 rispetto a chi ha cellule senescenti (“invecchiate”).

“Questo studio – ha dichiarato Cossarizza – dimostra per la prima volta che le cellule che vengono prodotte e attivate in seguito alla vaccinazione per il SARS-CoV-2 hanno un metabolismo che dipende, almeno in parte, dalla terapia che viene fatta per curare la sclerosi multipla. Questo ci permette di ipotizzare che questo fenomeno valga per tutti i vaccini (compresi i vari richiami) che una persona può fare nel corso della vita, anche in età non più giovane, come il vaccino per l’Herpes zoster. Di conseguenza, conoscere le vie metaboliche utilizzate dalle cellule attivate da un vaccino in un paziente che riceve una terapia piuttosto che un’altra ci potrebbe permettere di migliorare la personalizzazione delle terapie vaccinali nei pazienti con sclerosi multipla, utilizzando, ad esempio, farmaci che intervengano appunto su tali vie”.

“L’inizio della pandemia ha visto da subito AISM e la sua Fondazione impegnate in prima linea per comprendere prima gli effetti delle infezioni da coronavirus e poi dei vaccini nelle persone con SM – ha aggiunto Mario Alberto Battaglia, Presidente FISM – questo nuovo studio conferma l’efficacia sul lungo termine dei vaccini nella sclerosi multipla”.

Lo studio è stato finanziato dalla Fondazione Italiana Sclerosi Multipla (FISM) (“Bandi Speciali COVID-19”, codice “2021/C19-R-Single/011”), dal fondo di ricerca “Bandi di Eccellenza MIUR 2023-2027, Area CUN 06 Scienze Mediche” e realizzato con la preziosa ed incondizionata collaborazione delle ditte Standard Biotools, ThermoFisher Scientific, Beckman Coulter.

 

Referenza

“Metabolic pathways engaged by antigen-specific T and B cells after SARS-CoV-2 vaccination in multiple sclerosis patients on different immunomodulatory drugs reveal immunosenescence and predict vaccine efficacy”, Sara De Biasi et al., Nature Communications Doi: 10.1038/s41467-024-47013-0

















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