Il paziente ha ”un vero e proprio diritto di non curarsi” ma tale volontà deve essere espressa in modo chiaro e manifesto nel momento in cui esso si trova in pericolo di vita. A ribadirlo è la Corte di Cassazione con una sentenza che riguarda il caso di un testimone di Geova che chiedeva il risarcimento dei danni morali e biologici perché i medici, all’ospedale di Pordenone, gli avevano praticato una serie di trasfusioni di sangue nonostante egli avesse un cartellino con scritto ‘niente sangue’.
Nel caso in esame, la terza sezione civile del tribunale di piazza Cavour ha respinto il ricorso, spiegando che ”nell’ipotesi di pericolo grave e immediato per la vita del paziente, il dissenso del medesimo debba essere oggetto di manifestazione espressa, inequivoca, attuale, informata”. E questo perché un conto ”è l’espressione di un generico dissenso ad un trattamento in condizioni di piena salute, altro riaffermarlo puntualmente in una situazione di pericolo di vita”.
Per i giudici insomma è ”innegabile l’esigenza che, a manifestare il dissenso al trattamento trasfusionale, sia o lo stesso paziente che rechi con sé una articolata, puntuale, espressa dichiarazione dalla quale inequivocamente emerga la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita, ovvero un diverso soggetto da lui stesso indicato quale rappresentante ad acta il quale, dimostrata l’esistenza del proprio potere rappresentativo, confermi tale dissenso all’esito della ricevuta informazione da parte dei sanitari”.
Un cartello, dunque, non basta. Del resto, così come ”la validità di un consenso preventivo ad un trattamento sanitario non appare in alcun modo legittimamente predicabile in assensa della doverosa, completa, analitica informazione sul trattemento stesso”, allo stesso modo l’espressione di un dissenso ‘ex ante’, ”privo di qualsiasi informazione medico terapeutica, deve ritenersi impredicabile qualora il paziente, in stato di incoscienza, non sia in condizioni di manifestarlo”.
Fonte: Adnkronos